Letters to Inter - Diego Milito



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21 mag 2020
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A dieci anni dalla notte magica di Madrid, il messaggio del Principe ai tifosi nerazzurri


“Papà, ma perché ti sei messo così dietro? In tutte le immagini ci si vede a malapena...”.

Questa domanda me la fa sempre mio figlio Leandro. Avevo appena segnato i due gol al Bayern Monaco, lui aveva 3 anni: me lo sono messo in spalla e ho percorso i gradini verso la coppa, verso la gloria. Su quel palco c’era parecchia agitazione e quindi eccomi là, in fondo in un angolo, mezzo coperto, con Leandro che mi tiene le mani sulla testa, quasi sugli occhi, mentre Pupi alza la Champions League. La posizione privilegiata ce l’aveva lui. Leandro oggi ha 12 anni, è mancino, fa l’attaccante e gioca nel Racing. Ed è un super tifoso interista.

So che volete sapere cosa ho fatto la notte prima di Madrid, se ho preso sonno, se mi sono sognato la finale. Ma per arrivare lì, al Bernabeu, parto da Quilmes, dal Viejo Bueno dove sono cresciuto, a sud di Buenos Aires. Si può dire che sono cresciuto proprio come Leandro, con il pallone sotto al braccio. Una passione intensissima, nella quale ci ha messo lo zampino mio cugino Pablo. È lui che mi ha portato a giocare fin da quando avevo 6 anni. Seguivo sempre le sue orme, anche quando a 9 anni sono entrato nelle giovanili del Racing de Avellaneda. Racing contro Independiente, la squadra di mio fratello Gabriel, più piccolo di me di un anno: sfide e litigi erano all’ordine del giorno.

Il calcio è diventato qualcosa sulla quale ho potuto concentrarmi perché la mia famiglia mi ha appoggiato sempre, in maniera straordinaria e piena. Il compromesso era chiaro: non si mollano gli studi. E infatti li ho portati avanti fino al secondo anno di università, studiavo per diventare commercialista. Ricordo le corse in macchina: via da scuola e dritti agli allenamenti, mangiando un panino. O viceversa: gli allenamenti alla mattina, che mi costrinsero a cambiare classe, e le lezioni al pomeriggio.

Che sapore ha il calcio argentino? Quello che vi aspettate: è pieno di pressione, fin dalle partite dei piccoli. C’è uno spirito competitivo elevatissimo. Noi veniamo dal nulla, vogliamo vincere a tutti i costi.

E il Racing, la squadra per la quale ho sempre tifato, non vinceva il campionato da 35 anni quando è tornata a conquistare il titolo – Apertura – nel 2001. Come ve lo spiego? Io le sofferenze di quel club, di quei tifosi, le avevo dentro di me da sempre. Non ho mai mollato un centimetro perché quel risultato era, per me, incredibile.

Facevo anche la seconda punta, al Racing. Ho imparato lì a sviluppare le mie qualità, sono sempre stato innamorato del gioco, provavo piacere ad entrare nelle pieghe della manovra offensiva con i miei movimenti. Qualità che mi hanno consentito di partire per quel bellissimo viaggio verso l’Europa, verso il Genoa: a 24 anni lasciavo per la prima volta la casa dei miei genitori e con me volava in Italia la mia fidanzata, poi diventata mia moglie. Aveva 21 anni, mollò tutto per partire con me. Entusiasmo, quello non è mai mancato. A Marassi, al Saragozza con mio fratello, di nuovo a Genova. E poi l’Inter.

È stato facile ambientarsi. Conoscevo già Cambiasso, ex compagno di nazionale U20 di mio fratello. Cuchu è diventato il mio compagno di stanza, ho condiviso con lui tantissimi momenti per cinque anni: serio, intelligente, ma per fortuna mi addormentavo sempre prima io di lui! E poi c’era Zanetti: avevo giocato con suo fratello Sergio in Argentina. Mi sono sentito a casa e senza dubbio il rito dell’asado, con Samuel capo-cuoco, ha contribuito. Lo so, leggenda vuole e tutti i miei compagni sono pronti ad affermare che io mi limitassi soltanto a mangiare, ma credetemi: ogni tanto aiutavo anche io Walter, e ho anche le prove, guardate questa foto!

Per noi era naturale restare alla Pinetina anche dopo gli allenamenti: ci trovavamo bene, tiravamo sera tra mangiate e risate. Era un gruppo davvero unito, con allenamenti in cui si pedalava forte, perché la filosofia doveva essere: come ti alleni, giochi. La personalità di quella squadra era incredibile. E Mourinho stava vicino a tutti.

Vi avevo promesso Madrid, faccio ancora un paio di deviazioni prima di arrivare al Bernabeu. La prima è Kiev, semplicemente perché io il gol di Sneijder l’ho dovuto rivedere in TV. Ricordo quei momenti come se stessi riguardando un film: non volevo che la palla andasse oltre la linea di fondo, allora sono andato a recuperarla e mi sono reso conto di non avere angolo. Ho pensato che l’unica cosa che avrei potuto fare era calciare fortissimo addosso al portiere, poi qualcosa sarebbe successo. Dopo aver tirato, sono caduto per terra. Il tempo di rimettermi in sesto e ho visto Sneijder che esultava come un pazzo: non mi ero reso conto che avesse segnato!

Sì, ho molta memoria di quei momenti, sono istanti che mi piace chiamare specialissimi. E infatti ricordo bene l’orologio del Camp Nou: sembrava di sale. L’ho guardato dopo che in campo era già trascorsa una vita e segnava 15’: interminabile, ma che coraggio quella sera da parte di tutti! Mi porto dentro anche il clima pesantissimo sul treno Firenze-Milano, che ci riportava a casa dopo un 2-2 mortifero. Ma Pupi ci trasmetteva ottimismo anche quel giorno. E ha avuto ragione lui, anche grazie a quella serata incredibile... della pizza a casa mia mentre guardiamo Roma-Sampdoria. La sapete già, questa storia, ma resta un passaggio divertente di quella stagione eccezionale: Roma in vantaggio, noi tutti tristi. Arrivano le pizze, mia moglie mi mette in braccio Augustina, mia figlia piccola, e Pazzini pareggia. Da quel momento, non ho mollato Augustina nemmeno per un secondo, e la Samp ha vinto!

Vincere la Champions League era il mio sogno, quello di tutti. Come i tifosi del Racing avevano aspettato 35 anni, così quelli dell’Inter attendevano da 45. Non è stata una vigilia diversa dalle altre, posso dire che ero tranquillo e concentrato, sapevo sarebbe stata dura ma eravamo convinti e decisi.

Il rituale era il solito, con il mate in camera di Walter Samuel. Quella sera, per rilassarci ma allo stesso tempo motivarci, noi argentini abbiamo guardato “Iluminados por el fuego”, un film sui nostri connazionali eroi nella Guerra de las Malvinas. Brividi. Poi tutti a dormire.

La palla di Julio era lunga, l’ho scrutata, sono andato in contrasto con Demichelis, che era enorme. Anche qui, rivedo tutto, fotogramma per fotogramma. C'era Wesley pronto per il passaggio: sapevo che con lui la palla arrivava sempre. Così sono partito dritto, profondo. Ho fatto un bel controllo, ho visto arrivare Badstuber alla mia destra. Lì ho fatto una finta, noi la chiamiamo amague, e dopo un attimo correvo a esultare.

Per il secondo gol bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 2001: Racing-Lanus 2-0, penultima giornata dell’Apertura. Erano 9 anni che pensavo a quell’azione: al Cilindro de Avellaneda punto il difensore, finta a uncino, rientro ma con la palla che mi rimane sul destro. Tiro quasi di esterno, traversa, Chatruc segna sulla ribattuta. A Madrid la mia finta su Van Buyten è stata identica a quella di quel giorno: sono stato solo più bravo a riuscire a tenere la palla alla distanza giusta per aprire il piatto sul secondo palo. In quel momento ho abbracciato idealmente i tifosi nerazzurri di tutto il mondo.

Ero felice, lo sono tutt’ora, se penso a quello che abbiamo fatto, tutti insieme. Al segno che abbiamo lasciato nella storia di questo club, la nostra Inter.

E ve lo dico: mai, mai nella mia vita avevo visto uno stadio pieno di gente all’alba, alle sei del mattino. Già il ritorno da Barcellona era stato fantastico, con l’accoglienza all’aeroporto.

Ma quella mattina San Siro è stato il posto più magico del mondo: c’eravamo solo noi, c’era il popolo interista. Io ero stravolto. Ma ero stravolto di felicità.

Diego Milito


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