Letters to Inter - Nicola Ventola
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— 20 apr 2020Infortuni, gol speciali e ricordi: il messaggio dell'ex centravanti nerazzurro ai tifosi interisti
Fa più male una sconfitta o rompersi un crociato?
Ho un record personale di nove interventi chirurgici. Le mie ginocchia e le mie gambe portano i segni di infortuni che hanno indirizzato la mia carriera, hanno modificato le mie caratteristiche di calciatore. Mi hanno fatto perdere potenza, velocità ed esplosività. Mi hanno peggiorato.
Eppure ve lo dico. Le ferite del cuore sono quelle più dolorose. Quel dolore lancinante del legamento che si strappa passa, pur lasciando strascichi inaggiustabili. Ma il rammarico di certe occasioni non passa, ritorna sempre, è uno spillo che ti punge nell’intimo e ti fa dire: eravamo così vicini.
Mia mamma è una professoressa di filosofia. Il suo martello mi ha forgiato: possono succedere cose che ti fanno male, ma devi pensare al futuro. Non è facile, però, quando perdi il papà a 20 anni. Ma in quei giorni neri, una volta di più, ho cementato fondamenta e struttura di vita e carriera, per essere più forte di infortuni e sconfitte.
Non abbattersi mai, perché di fronte alle infinite avversità c’è una sola arma, la positività.
Si nasce con qualcosa. A casa mia erano tutti laureati – e mi sono laureato anche io, con i miei ritmi – ma quando mio fratello mi ha portato per la prima volta al campetto mi sono innamorato subito del pallone. Poi lo stadio: lo Stadio della Vittoria prima, il San Nicola poi. La passione in famiglia l’ho portata io, da tifoso del Bari e da giovane calciatore delle giovanili.
Il 1994 è stato un anno incredibile. 16 anni, finale Allievi Nazionali. Bari-Brescia, affrontiamo una squadra quotatissima con questi ragazzi di cui tutti parlano un gran bene: Roberto Baronio, Emiliano Bonazzoli, Andrea Pirlo. Al settimo minuto faccio gol di testa, poi ci mettiamo tutti dietro e vinciamo il titolo di campioni d’Italia con una difesa a oltranza. Era una squadra davvero forte la nostra, due anni dopo avremmo vinto il Viareggio.
Io mi allenavo già con la prima squadra. Il 6 novembre 1994 Beppe Materazzi, papà di Marco e all’epoca allenatore del Bari, mi porta a Firenze in panchina. Perdiamo 2-0 ma verso il 90’ mi fa entrare: debutto in A a 16 anni. Mi marca un difensore brasiliano: è Marcio Santos. Io avevo passato l’estate a tifare Italia ai Mondiali Usa ’94, sapevo bene chi era Santos. Campione del mondo con il Brasile, l’unico al quale Pagliuca aveva parato il rigore a Pasadena. Entro e mi dà subito un calcione di benvenuto. Beh, quel calcio me lo sono rivenduto per settimane in paese con i miei amici. Andavo da loro e dicevo: “Oh ragazzi, Marcio Santos mi ha dato un calcio!”. Era pura felicità.
È stato il periodo più bello, quello in cui alimentavo e vivevo il sogno di ogni ragazzo: giocavo nella squadra con la quale ero cresciuto, che tifavo. Sono entrato nella storia del Bari con il gol promozione, quello del ritorno in A. Ero in rampa di lancio, poi contro l’Empoli il primo crac, dopo il contrasto con Baldini.
Di colpo l’entusiasmo si spegne, subentra la paura. Non c’era la tecnologia di oggi, non avevo indizi su come poteva essere il mio futuro.
“E se il sogno fosse finito?”, mi chiedevo.
Non era finito il sogno, iniziava invece il sentiero che avrei percorso più volte, quello che passava anche per le lunghe sedute all’Isokinetic di Casteldebole. Un giorno non ne potevo più, volevo capire a che punto ero: sono andato a comprare un pallone da spiaggia e ho iniziato a palleggiare. Mi mancava il campo.
Era la stagione 1997/1998 e sono rientrato giusto in tempo per... segnare all’Inter, un gol pesante per la nostra salvezza, ininfluente per il campionato dei nerazzurri. Un gol significativo: ero tornato ad essere un calciatore e avevo incrociato proprio l’Inter.
Debutto contro lo Skonto Riga, a Pisa: gol. In campionato andiamo a Cagliari e siamo sotto 2-0: io e Pirlo entriamo al posto di Baggio e Djorkaeff. Faccio una doppietta indimenticabile, anche con un gol in girata al volo: la partita che davvero non scorderò mai. 2-2.
Ho iniziato fortissimo, all’Inter. Ed era uno spasso allenarsi con Ronaldo. Andava troppo veloce, per tutti. E poi rideva, scherzava, non si prendeva sul serio. Spesso sfidava Colonnese e West: “Chiudete le gambe, vi faccio tunnel”. Li avvisava, poi faceva passare la palla tra le gambe.
Al termine di una seduta si era messo in testa che dovevo tirare io le punizioni. Gli dicevo: “Ronie, ci siete tu, Baggio, Djorkaeff e non ho mai tirato una punizione in vita mia”. Insisteva, voleva provare uno schema, anzi uno scherzo. Lui partiva, fintava di destro e me la toccava di tacco sinistro. Un gioco.
Avevo sempre 20 anni, ero a San Siro ed era la Champions League: Inter-Spartak Mosca. Punizione, Ronie si avvicina e mi dice: “Nick, lo facciamo?”. “Sei matto?”. “No no, lo facciamo, preparati”. Pensate a Filimonov, il portiere dello Spartak, che si prepara a parare la punizione di Ronaldo. Lui parte, finta, tocco, io faccio partire un destro che finisce dritto all’incrocio.
Ci credete? Io non ci credevo, e un po’ mi scappava da ridere.
La filosofia mi è servita e mi serve anche oggi. Stavo per realizzare il desiderio più profondo, quello di vestire la maglia della Nazionale. Zoff mi aveva già convocato per Italia-Svizzera, a Udine, la partita del debutto di Totti. Resto in panchina, perché come ultimo cambio il C.T. fa entrare Bachini, che giocava davanti al suo pubblico. Poi viene da me e mi dice: “Nicola, a Salerno contro la Spagna giochi titolare”. Inter-Sampdoria, 15 novembre 1998. Cado come un prosciutto, non voglio ripensarci: infortunio al collaterale, stagione andata, Nazionale persa.
Quando ti fai male la prima volta sei forte, hai voglia di bruciare le tappe. La seconda volta tutto diventa ancora più pesante.
Vado in prestito al Bologna, ma è il periodo peggiore, con papà malato, la mia testa sempre rivolta a lui. Mi faccio male altre tre volte, due volte al menisco e una alla caviglia.
Non abbattersi. Rialzarsi. Ripartire.
Due anni lontano da Milano, poi via, di nuovo a cento all’ora nell’avventura più incredibile, quella con Cuper, con Ronaldo-Vieri-Recoba-Kallon. Chiedeva sacrificio alle punte, l’allenatore: io e Mimmo eravamo perfetti, ci completavamo, ci sentivamo importanti in un gruppo che aspettava il ritorno dei titolari.
Lo spirito, l’anima e il cuore che ho messo in quel periodo non li dimentico, come credo non lo dimentichino nemmeno i tifosi dell’Inter.
A 24 anni, sfumato lo Scudetto, mi ritrovo nel punto più basso: un problema alla cartilagine del ginocchio. Nessuno, in Italia, se la sente di operarmi. Vedo la parola fine che si avvicina. Poi l’illuminazione. Il professor Steadman era atteso a Montecarlo per un convegno. Mi faccio operare in artroscopia in Italia solo per registrare su una videocassetta la situazione del mio ginocchio. Vado a Montecarlo e con la videocassetta in mano aspetto che Steadman finisca la sua conferenza. Gliela mostro, la guarda e mi dice: “70%”.
Avevo il 70% di possibilità di tornare a giocare. L’Inter mi è sempre stata accanto, in maniera eccezionale. L’operazione negli Stati Uniti mi ha rimesso in piedi, ma non ero più lo stesso giocatore. Avevo perso flessibilità e velocità. Non avevo perso la sfiga: al Crystal Palace in allenamento un intervento di un compagno mi procura la frattura del perone.
Con gli anni ho imparato a gestire il mio corpo, a non recriminare mai, a guardare sempre in avanti con il sorriso sulle labbra. Quello che in questi giorni proviamo, con Vieri e altri ex compagni nerazzurri, a regalare ai ragazzi che sono in casa. Non ci costa nulla, ci divertiamo noi e divertiamo gli altri.
E ci scappa da ridere quando ripensiamo, insieme, a Valencia-Inter 0-1, al mio gol, all’assedio infinito, a Toldo espulso e a Farinos che si mette tra i pali, con quei guanti grossi il doppio di lui. Ho capito la difficoltà di quei momenti per il povero Francisco quando, al Torino, sono finito in porta contro la Lazio. Ecco: non andate a vedere come ho provato a parare il rigore tirato da Zarate.