Letters to Inter - Cristian Chivu



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13 apr 2020
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Dall'infortunio di Verona alla Champions League: il messaggio dell'attuale allenatore dell'Under 17 nerazzurra ai tifosi interisti


Non riuscivo a muovere il braccio sinistro.

Era paralizzato.

Non ho mai perso conoscenza e mentre mi mettevano sulla barella, mentre mi portavano fuori dal campo, la mia testa funzionava ancora, nonostante la botta tremenda. C’erano tantissime persone attorno a me: compagni, medici, infermieri, uno stadio intero che mi guardava. Ho avuto un primo e pressante pensiero: quello per mia moglie, per mia figlia, per la mia famiglia. Avevo un solo modo per comunicare con loro, che guardavano dalla tv: ho alzato l’altro braccio.

Era il mio grido per dir loro: “Sto bene, andrà tutto bene”.

 

 

Dentro di me, però, montava una preoccupazione soffocante: riuscirò a tornare ad essere una persona normale? Non pensavo al calcio, al ritorno in campo, alle partite. Sull’ambulanza avevano iniziato a raccontarmi i passaggi: l’operazione, la convalescenza, cosa mi sarebbe successo.

Io però volevo solo la certezza che sarei tornato ad essere un uomo, un papà, un marito normale.

Quando mi sono svegliato ero nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale a Verona. Non lo nego: ho chiesto quanto fosse finita Chievo-Inter. Avevo un po’ di confusione, non ricordavo se il gol lo avesse segnato Balotelli o Pandev, ma è un dubbio che in realtà si sono portati avanti un po’ tutti. Ho capito subito una cosa, sdraiato in quel letto: sarebbe stata lunga. Ecco, quello che non mi aspettavo è che, una volta lasciata Verona, avrei dovuto passare altre tre settimane in ospedale a Milano. Controlli, accertamenti, pazienza. E, soprattutto, un altro intervento: quello necessario per ottenere l’idoneità sportiva. Era il passaggio più importante, quello per tornare ad essere un calciatore.

Non pensavo fosse così grande, la cicatrice. Ma non ci ho mai dato troppo peso, era solo il segno di un percorso che doveva riportarmi a essere me stesso. La guardi allo specchio e ti dici che alla fine sei stato un uomo fortunato, che bisogna essere ottimisti. È quasi tranquillizzante.

Quasi. Io il mio corpo lo avevo imparato a gestire da tempo. Sono arrivato all’Inter con una spalla lussata, non c’era tempo per operarla e sono finito a giocare una stagione con la spalla che poteva uscire – e usciva – al minimo contatto. Si trattava di giocare senza il supporto di un braccio. Ho chiuso la carriera con 13 interventi, non ho mai mollato.

Il fatto è che il protocollo per l’intervento alla testa era rigoroso, serviva l’idoneità sportiva per tornare in campo. Dalla testata con Pellissier del 6 gennaio 2010 me l’ero immaginato tante volte il mio rientro. Ma era complicato. Le prime corse sono state tra i momenti più duri.

Non avevo i riferimenti, non andavo dritto, mi capitava di cadere. C’era da ricostruire tutto.

“È ora di scacciare le incertezze e le paure: sei grande e maturo”. Mourinho: un duro, pieno di tenerezza. Non mi aspettavo certo, 77 giorni dopo Verona, di tornare in campo da titolare, a San Siro. Ma José mi stuzzicava già da un po’. Mi aveva chiesto se volevo andare a Londra per Chelsea-Inter, ad esempio. Era un modo per stimolarmi, per farmi rimettere in pista.

Al nono minuto di Inter-Livorno arriva una palla alta: stacco e colpisco... di casco. Ovazione di San Siro. Non ero così emozionato dal mio debutto in Nazionale. E in nessuno stadio c’era mai stata un’esultanza generale per un colpo di testa innocuo nella metà campo difensiva.  

 

 

Mi allenavo senza casco, ma in partita avevo deciso di tenerlo.

È dura scacciare certi incubi.

Indossarlo mi dava calma e serenità, era la mia forma di protezione. Poi certo, pronti via ho capito che il laccio era troppo stretto e da subito l’ho sganciato, non sarei riuscito a respirare. E vi assicuro che con il caldo non era per nulla piacevole. Ma non l’ho più tolto.

Anzi, ad un certo punto sì, l’ho tolto. E l’ho buttato dentro alla Champions. Assieme al caschetto, in quel trofeo, ci ho messo tutto: le paure, le incertezze, i sacrifici che avevo affrontato. Finiva tutto, con la realizzazione del sogno più bello. E le lacrime di quel momento erano di gioia, ma anche di liberazione. Era anche l’aver raggiunto un meritato momento di rilassamento, fisico e mentale.

Perché non è stato uno scherzo arrivare fino lì, a Madrid. Sono serviti tutti i pezzetti di una vita intera: l’educazione dei miei genitori, il lasciare la Romania, l’esperienza all’Ajax, gli infortuni, le sconfitte. Le paure e le fatiche.

Mio papà era un calciatore e poi è stato il mio allenatore. Ma non crediate: non ero un raccomandato. Mi allenavo con quelli più grandi di me, dovevo dare il massimo per tenere il loro passo. E papà non mi scontava nulla. Al mattino andavo a scuola, poi al pomeriggio – anche se la strada che dovevamo fare era la stessa – mi faceva prendere i mezzi pubblici, mentre lui guidava fino al campo. Era uno dei suoi modi di insegnarmi l’autogestione, il sacrificio e anche l'ambizione.

Il legame con lui è stato forte e indissolubile. E mi tremano le mani se penso a come gli ho detto addio. Ha passato a casa i suoi ultimi giorni di vita. Ricordo perfettamente la mia ultima conversazione che ho avuto con lui: mi ha rimproverato perché in campionato avevamo preso un gol per colpa mia. Questo era il mio papà.

Io avevo 17 anni e in quei giorni ero in ritiro per un match infrasettimanale. Mi chiamarono da casa: “Corri, papà ci sta lasciando”. Mi precipitai, arrivai in tempo: era ancora in vita, anche se non era più cosciente. “Papà – gli sussurrai -, ti prometto che farò di tutto per diventare una persona migliore, mi prenderò cura della nostra famiglia. E stai tranquillo: diventerò anche un buon calciatore”. Morì pochi istanti dopo.

Il giorno successivo scesi in campo, il cuore gonfio di tristezza, ma la voglia di regalare a papà la mia miglior prestazione possibile.

In quella partita così pesante e significativa per me trovai il mio primo gol nella Serie A romena.

Ero già bravo tecnicamente. E infatti ho iniziato come punta e poi come trequartista. Poi, sapete bene come va: serve un mediano, poi manca il terzino sinistro e via, sono finito a fare il centrale di difesa, il mio ruolo. Una metamorfosi che mi è servita, in carriera, a ricoprire più ruoli – anche all’Inter – e anche all’interno della stessa partita. In fondo, è stimolante anche così: è un modo per resettare continuamente la testa e porsi nuovi obiettivi.

Io allenavo i miei gesti. La regola delle diecimila ore non sarà scienza ma un po’ di verità c’è: educavo il sinistro e allenavo il cervello. La scuola dell’Ajax è stata fantastica da questo punto di vista: lì ti fanno crescere giocando, dandoti libertà, incoraggiandoti nelle scelte di gioco e nei gesti tecnici. Sapevo leggere le situazioni, avevo poco più di vent’anni ma Koeman capì cosa gli potevo dare e mi diede la fascia di capitano. Da quando portavo le borse a quelli più grandi, ne avevo fatta di strada.

Il lavoro paga.

E uno dei segreti del Triplete sta proprio lì, in quello che facevamo in allenamento, ogni giorno. Per molto tempo ho pensato che fossero più complicate le sedute ad Appiano Gentile rispetto alle partite. Erano battaglie contro campioni clamorosi, sessioni che temperavano l’atteggiamento e che rendevano un po’ più facili le partite della domenica.

Il rapporto con quel gruppo è stato fantastico. E quando ho segnato contro l’Atalanta, con un tiro da fuori bellissimo, ho tolto un’altra spina dolorosa. Ero felice, quella situazione mi tranquillizzava e mi ripagava. Non era una partita banale, cadeva tra le due sfide con il Barça, ma quel gol non fu celebrato con isterismi: vennero tutti da me, con gioia pura. “Sei quello che se lo merita di più”, mi dicevano. Mi ero guadagnato il loro rispetto, nel tempo. Non dimentico.

 

So che se siete arrivati fino a qui è perché volete sapere del Triplete. Non eravamo ossessionati dal vincere o perdere tutto. Era un passo alla volta, con umiltà e consapevolezza. Senza Kiev, nulla sarebbe potuto accadere. E nemmeno senza Sampdoria-Roma, ovviamente. Guardai il primo tempo: dominio totale giallorosso. Poi spensi la televisione. Scoprii della doppietta di Pazzini dagli sms sul cellulare.

Se penso alla sfida del Camp Nou mi scappa da ridere. Non dovevo scendere in campo, ero tranquillo sul lettino, negli spogliatoi. Arriva qualcuno di corsa: “Si è fatto male Pandev, muoviti, scaldati: giochi tu”. Uscii da solo, con oltre 90mila persone che mi fischiarono per tutto il riscaldamento. Un bell’ambientino. Mourinho mi disse che avrei dovuto giocare alto nel 4-2-3-1. “Non c’è problema, faccio anche il portiere se serve”. Che poi, ora lo possiamo dire tranquillamente, giocai praticamente da quinto, a sinistra: dovevo badare solo a Dani Alves. E a proposito di duttilità: dopo l’espulsione di Motta, andai a fare il mediano. Che impresa: per me, quel Barcellona resta una delle squadre più forti di sempre.

 

Non una sfida qualsiasi. Come quella con Robben, a Madrid. Dicono che mi abbia fatto venire il mal di testa in finale. Ovviamente sapevo che avrei dovuto avere a che fare con un fuoriclasse: rapido, tecnico, fantasioso. Ma andate a vedere i tabellini: gol in carriera di Arjen Robben contro Cristian Chivu? Zero. Gestione, l’avevamo preparata bene. E abbiamo vinto.

 

Ho dato davvero tutto per l’Inter, a tal punto dal portare i segni sul mio corpo. Indelebili, dentro e fuori. Forse i tifosi nerazzurri non mi hanno mai visto sotto la curva a baciare la maglia, ma hanno visto i miei sacrifici, i miei sforzi per recuperare dagli infortuni, per essere sempre utile alla squadra e ai compagni.

È quello che cerco ora di insegnare ai ragazzi delle giovanili nerazzurre: bisogna scegliere i propri obiettivi, la spinta verso l’eccellenza deve venire da dentro.

Il tempo non aspetta nessuno. Bisogna farsi trovare pronti, come meglio si può.

Io l’ho fatto, armato di un caschetto di gomma.

 

Cristian Chivu

 


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