Giorgio Mariani, un talento fuori dagli schemi



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9 mag 2017
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Eloquenza dei gesti e bontà d'animo: riviviamo la carriera di Mariani, genio ribelle e discontinuo


MILANO - L'eloquenza dei gesti e la bontà d'animo. Giorgio Mariani è passato alla storia per esser stato un genio tanto ribelle quanto discontinuo. Un tipo verace, che non amava i giri di parole, nemmeno quando la sua classe veniva rinchiusa dentro i limiti del rettangolo di gioco. Se era in giornata, ti puntava e non c'erano sregolatezze che potessero trattenerlo. "Come facesse a scattare, fumando cinque pacchetti di Muratti al giorno, nessuno l'ha mai capito. Ma correva come un demonio", scrisse di lui il giornalista Leo Turrini, sintetizzando alla perfezione i pregi e i limiti del sassolese.

Lo spunto sul breve e la fame agonistica furono alcune delle qualità che, nel lontano novembre 1973, avevano stregato un certo Helenio Herrera. Il "Mago", durante la sua seconda (e fugace) avventura nerazzurra, era alla ricerca di un interprete che potesse ricordare quel giocatore "indiavolato" che rispondeva al nome di Jair, e chiese al presidente Fraizzoli proprio il giovanotto che, come il brasiliano, amava i dribbling e la mondanità. La vita di Mariani, per certi versi, è stata regolata dall'affannosa ricerca della chiusura ideale di un cerchio: alla giocata del campione difficilmente corrispondeva la continuità necessaria che tenesse in equilibrio i piatti della bilancia. Fu così anche all'Inter.

Una stagione e mezza all'ombra della Madonnina con 57 presenze all'attivo, divise fra campionato e coppe. Forse poco per uno che, dopo una toccata e fuga a Palermo, si presentava a Milano con un tricolore in bacheca, ottenuto nel 1969 con la Fiorentina di Bruno Pesaola, e le migliori intenzioni per diventare il partner ideale di Roberto Boninsegna. Ad ogni modo, l'indole scontrosa e la schiettezza del personaggio, abbastanza invise per l'epoca, non oscurarono l'immagine dei suoi calzettoni arrotolati intorno alle caviglie, di quel volto simmetrico coronato da ricci scuri, latini. Gli stessi che accarezzarono la sfera respinta malamente da Pizzaballa, depositando in rete il quinto gol interista di un derby altrettanto indimenticabile, vinto 1-5 nella primavera del 1974. Non ci riuscì nemmeno la tv pubblica quando, complice lo sciopero dei cameramen, non filmò una delle sue undici reti milanesi. 'Bellissima', dirà, con la spontaneità con cui discuteva animatamente in campo e poi 'ricuciva'. Era un uomo che modellava a suo modo i confini della generosità, Mariani.

Affannarsi dietro a una palla di cuoio e un avversario tutt'altro che gentile erano il contrappasso per un calciatore che amava molto il proprio modo di giocare, un peccato "capitale" per un attaccante. Segnava poco, vero, ma difficilmente mancava gli appuntamenti con la Storia. Come quella volta che, con la maglia del Cesena, fece tremare i polsi al fenomenale Magdeburgo della metà degli Anni Settanta. Dopo il secco 3-0 in Germania, i bianconeri sfiorarono l'impresa a "La Fiorita", con Mariani solita croce e delizia: suo il primo sigillo della speranza ma anche un cartellino rosso, di stizza, per un fallo sul cannoniere Joachim Streich. Fu comunque l'apice emotivo di una stagione conclusasi, purtroppo, con la retrocessione in B e l'addio di Giorgio all'Emilia-Romagna. Momentaneo perché, dopo una parentesi con il Varese, riabbracciò la regione nativa, prima al Carpi e poi al Sassuolo, in serie D. Un ritorno a casa per un giocatore che in carriera si era scontrato con i 'grandi' del football, come il mitico Jürgen Sparwasser, sicuramente coerente con il ricordo di un ragazzo partito, pieno di sogni, dall'umile rione Braida. E con semplicità lo ricorda la Sasòl sportiva. Calciatore, dirigente (dei neroverdi fu ds, prima dell'acquisizione societaria da parte di Giorgio Squinzi) e una mente capace, da un estremo all'altro, di fissare su carta emozioni autentiche.

Aniello Luciano

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