Zenga: “Dal primo giorno nella mia squadra del cuore alla Hall of Fame...”



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23 giu 2022
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L’Uomo Ragno si racconta nella puntata di Careers dedicata alle leggende nerazzurre


MILANO – Le origini, viale Ungheria, i colori nerazzurri visti prima dagli spalti, poi da bordocampo, infine vissuti da assoluto protagonista tra i pali. La storia interista di Walter Zenga ha il sapore dei sogni e del talento: dal primo giorno da professionista nella squadra del cuore, all’ingresso come primo portiere in assoluto nella Hall of Fame dell'Inter. L’Uomo Ragno questa storia l’ha raccontata nella puntata del format di Inter TV “Careers” dedicato alle leggende nerazzurre

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La Macallesi, viale Ungheria, sono parte della mia vita, dove ho cominciato, dove vive ancora mio fratello e dove recentemente ho dato il mio nome all’accademia portieri perché è il giusto riconoscimento per chi mi ha fatto nascere. Ho dei ricordi pazzeschi, sono come delle foto: mio padre che mi accompagnava dentro il cancello, si metteva dietro la porta a braccia conserte e sia quando facevo cose belle che sbagliate era sempre presente. L’allenatore si chiamava Giannino Redaelli, era alto 1.90, e incuteva timore per la sua fisicità. Una delle cose più belle erano i derby che si giocavano contro lo Sporting che era praticamente dall’altra parte della strada, erano l’inizio di un sogno. Il giorno in cui mi dissero che sarei andato all’Inter sono andato in giro come se avessi vinto la Coppa del Mondo.

C’è Diego in campo. L’ho frequentato recentemente a Dubai e tutte le volte che ci incontravamo lui mi diceva “cavolo, farti gol era dura”. Questa è un’immagine della partita Scudetto che abbiamo vinto a quattro giornate dalla fine del campionato battendo il Napoli 2-1 a Milano con il gol di Matthaus su punizione a poco dalla fine.

Quel campionato, cominciato più tardi per le olimpiadi di Seul non era cominciato bene, c’era contestazione, ma quel gruppo era speciale. Ricordo una riunione con Trapattoni in mezzo e c’era tanta onestà intellettuale da parte di tutti, era un gruppo che si prendeva le proprie responsabilità, che non scappava davanti alla difficoltà. Tre giorni dopo essere stati eliminati dalla Coppa Uefa dal Bayern Monaco avevamo vinto il derby in casa del Milan, era una squadra tosta. In quel gruppo c’erano delle personalità spiccate: Lothar, io, Nicolino, Riccardo, Bergomi e dei leader silenziosi come Brehme, Bianchi, Matteoli, Beppe Baresi, era un gruppo che riusciva a non esaltarsi e ad attutire i problemi che si trovano in una stagione.

Ho esordito all’Inter che avevo 22 anni e dall’altra parte c’erano Platini, Zico, Gullit, Maradona, Van Basten... quando mi chiedono qual è stato l’avversario più difficile penso sempre agli altri portieri che si sono trovati davanti Rummenigge, Matthäus e gli altri. Quando mi trovavo davanti avversari di valore, pensavo alla forza dei miei compagni e questo mi dava la forza per andare avanti al meglio.

È una Coppa quasi difficile da raccontare perché nasce da un anno pazzesco. Mi ricordo che in campionato ogni volta che c’era una partita dicevamo “Sì va beh ma tanto c’è la prossima” e invece in Europa era subentrato il “o tu o io”, era immediata la cosa. Ricordo ancora quando deviai la palla di Sammer sulla traversa all’ultimo minuto della partita contro il Borussia Dortmund, quella è stata la svolta, quando abbiamo passato così il turno. In quella finale ero carichissimo, il pubblico ha cominciato a scandire il mio nome e mi ha dato quella scossa. Se ci fosse stato un regista, se fosse stato un film, la fine, l’apoteosi avrebbe dovuto essere proprio quella, giocare la finale in casa, uscire con la Coppa e dire “adesso ho rimesso a posto i conti”. Quella è la partita, insieme alla prima ufficiale con l’Inter che ha rappresentato il completamento totale, l’emozione del ragazzino che gioca la prima partita a San Siro con la maglia della squadra per cui tifa, nel suo stadio, dove prima vedeva i suoi idoli solo dall’alto: io andavo in curva, poi ho fatto il raccattapalle, poi il secondo, poi il titolare. Nell’ultima partita l’emozione era la stessa, avevo voglia di lasciare un segno dimostrando che “Io sono l’Inter” e ci sono riuscito.

La mia partita d’addio è stata incredibile, con tanti protagonisti dello spettacolo. È stata una serata bellissima organizzata dai miei amici, c’era tutta l’essenza della mia carriera.

Avevo le lacrime agli occhi dall’emozione: entrare nella Hall of Fame come primo portiere della storia dell’Inter è stato il riconoscimento più bello della mia vita perché significa che sono riuscito a lasciare un segno, a prescindere dai trofei. Vinci se lasci un’impronta, un’immagine. Di fianco a me avevo tre fenomeni: Ronaldo lo conosciamo, Lothar è stato impressionante, uno dei migliori giocatori con cui ho avuto la fortuna di giocare, era tosto e anche fuori dal campo eravamo molto legati. Zanetti è arrivato che era un ragazzino e ha fatto tutto quello che un giocatore sogna di fare nella storia di una società. Questa è una foto che ho a casa.

Se chiudo gli occhi a cosa penso? Al primo giorno di ritiro in Toscana con i nazionali che non erano ancora tornati dal campionato del mondo. Ero in camera con Juary e quel giorno andare al campo di allenamento passando tra la folla nerazzurra è stato impressionante, un’immagine pazzesca che ricorderò sempre. Il mio primo giorno da professionista nella squadra del mio cuore.  


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