“Ronnie” era l’Inter, l’aveva rimessa al centro dell’universo calcistico, vinse una Coppa Uefa e mancò due scudetti di pochissimo, non tutto per motivi dovuti ai limiti suoi e della squadra. Nessuno aveva mai abbinato quella tecnica e quella velocità: il brasiliano ha ridefinito il concetto di attaccante portandolo nella modernità.
Massimo Moratti fu abilissimo a intuire che nonostante un anno giocato a livelli stratosferici, Ronaldo non era felice a Barcellona e aveva voglia di Inter. Fu tutto bellissimo, fin da subito. Quando in maniche di camicia salutò migliaia di interisti impazziti di gioia affacciandosi dal balcone di via Durini, oppure quando Massimo Paganin, ex capitano dell’Inter, abboccò alla sua finta e lo vide segnare il primo gol in Italia. Non fu certo l’unico, a non saper fermare un attaccante che sembrava impossibile da arrestare, neppure le maniere forti funzionavano.
Se il terreno di gioco non era l’ideale, diventava se possibile ancora più forte: come a Mosca, quando danzò sul ghiaccio per portare l’Inter in finale di Coppa Uefa contro la Lazio, dove scherzò Marchegiani, steso per terra senza che Ronaldo dovesse neppure toccare il pallone, disorientato dalle finte di corpo. Alessandro Nesta, uno dei più forti difensori della sua generazione, gli chiese, con cortesia, se poteva smettere di umiliarli tutti, che ormai la finale era vinta.
Era a Parigi, e doveva essere l’antipasto per il Mondiale, che invece arriverà soltanto quattro anni dopo, con Ronaldo capocannoniere. Se ne andò al Real Madrid, come Meazza giocherà per il Milan, ma la storia lo ricorderà come Ronaldo l’interista, quello che aveva fatto rasare i capelli a migliaia di ragazzini che volevano essere come lui, il Fenomeno.
“Mai visto nulla di simile”. Compagni e avversari, tifosi e commentatori calcistici, più o meno tutti sono concordi nel definire il Ronaldo visto in nerazzurro: sostanzialmente un alieno, un qualcosa di completamente diverso rispetto agli attaccanti apparsi nel primo secolo di gioco del calcio. Anzi, un “fenomeno”, come cantava la Curva Nord e come gli è rimasto cucito addosso.
“Ronnie” era l’Inter, l’aveva rimessa al centro dell’universo calcistico, vinse una Coppa Uefa e mancò due scudetti di pochissimo, non tutto per motivi dovuti ai limiti suoi e della squadra. Nessuno aveva mai abbinato quella tecnica e quella velocità: il brasiliano ha ridefinito il concetto di attaccante portandolo nella modernità.
Massimo Moratti fu abilissimo a intuire che nonostante un anno giocato a livelli stratosferici, Ronaldo non era felice a Barcellona e aveva voglia di Inter. Fu tutto bellissimo, fin da subito. Quando in maniche di camicia salutò migliaia di interisti impazziti di gioia affacciandosi dal balcone di via Durini, oppure quando Massimo Paganin, ex capitano dell’Inter, abboccò alla sua finta e lo vide segnare il primo gol in Italia. Non fu certo l’unico, a non saper fermare un attaccante che sembrava impossibile da arrestare, neppure le maniere forti funzionavano.
Se il terreno di gioco non era l’ideale, diventava se possibile ancora più forte: come a Mosca, quando danzò sul ghiaccio per portare l’Inter in finale di Coppa Uefa contro la Lazio, dove scherzò Marchegiani, steso per terra senza che Ronaldo dovesse neppure toccare il pallone, disorientato dalle finte di corpo. Alessandro Nesta, uno dei più forti difensori della sua generazione, gli chiese, con cortesia, se poteva smettere di umiliarli tutti, che ormai la finale era vinta.
Era a Parigi, e doveva essere l’antipasto per il Mondiale, che invece arriverà soltanto quattro anni dopo, con Ronaldo capocannoniere. Se ne andò al Real Madrid, come Meazza giocherà per il Milan, ma la storia lo ricorderà come Ronaldo l’interista, quello che aveva fatto rasare i capelli a migliaia di ragazzini che volevano essere come lui, il Fenomeno.